Intervento di Luca Cirese al funerale di Castropignano
Non basta allo studiare solo una vita
Ho deciso di prendere parola oggi per rendere omaggio a mio nonno, Alberto Mario Cirese. Gli rendo omaggio ricordando cosa ha significato il mio rapporto con lui e le cose che mi ha insegnato. Non sarò troppo lungo perché come mi ha insegnato mio nonno “non bisogna dire in cento parole quello si può dire in dieci”.
Nonno per me è stato un maestro nel pensiero, con lui sono “andato” – come diceva - “a scuola dal logico” invece che a “scuola dallo stregone”: mi ha insegnato il rigore del pensiero che si mostra nella logica e nei suoi ragionamenti corretti, contro i facili rifiuti dovuti a ignoranza e ideologia, che nonno ha da sempre osteggiato. L'altro grande insegnamento è stato la materia a cui ha dedicato la sua intera vita di studio, l'antropologia; nel suo ultimo libro Altri sé. Per una antropologia delle invarianze (Sellerio, 2010) è ripubblicata una meravigliosa intervista – forse la prima cosa sua che lessi – intitolata “Antropologia delle differenze, antropologia delle invarianze” (1995) nella quale spiega la sua analisi comparata delle culture: per spiegarla usa la bellissima immagine – amata anche da mia sorella - dei frammenti di uno specchio che riflettono allo stesso modo dello specchio originario e quella della torre di Babele, che separò le lingue, e della Pentecoste, che le riunì negli apostoli. Lo sforzo scientifico di mostrare continuità e discontinuità fra le culture – “Contro il pensiero 'altro'” è il titolo dell'ultimo corso tenuto a Roma nel 1991-2, a mostrare l'importanza che il tema rivestiva per lui - è sicuramente uno dei lasciti culturali di mio nonno alla antropologia, alla cultura italiana e a me, anche dal punto di vista umano. La stessa consapevolezza della serietà e dello spirito di servizio della ricerca scientifica mi deriva da mio nonno, forse mediata anche dalla lettura dei ricordi dei suoi allievi per i suoi ottant'anni in Insegnamenti (CISU 2002); a proposito basta leggere una delle epigrafi del sito – www.amcirese.it – che ha curato nell'ultimo periodo della sua vita, che recita: «Del resto a me, come uomo serio, va resa questa giustizia, che io parlo soltanto di cose che realmente conosco ed uso soltanto parole cui annetto un senso ben determinato; poiché solo un tal senso si può con sicurezza comunicare ad altri» (Arthur Schopenauer). L'importanza della comunicazione – altro grande insegnamento - ritorna nella importante distinzione fra segnicità e fabrilità, per cui se il possesso della prima da parte di ciascuno non impedisce il possesso da parte di tutti, quello della seconda no. Nonno si inserisce dunque nella schiera di maestri – ascoltati o letti – che hanno fatto di me la persona e lo studente che sono ora.
Un suo allievo a cui sono molto legato, Eugenio Testa, ha scritto sempre in Insegnamenti che nonno è un libro, riferendosi alla sua lettura di Cultura egemonica e culture subalterne (Palumbo, 1973) per il primo esame universitario. Ineccepibile se si pensa alla precisione e alla sistematicità di ogni suo discorso; aggiungo soltanto che nonno ora sarà solo i suoi libri - cioè «non morirà del tutto», come scriveva Orazio (Odi, III 30) - perché sarà ricordato grazie a essi, che sono già letti e apprezzati e lo saranno sempre. Non so se nonno fosse credente o meno, ma sicuramente ha raggiunto questa forma di immortalità: quella che personalmente auguro a chiunque provi la stessa passione nel pensiero e nella ricerca.
Studiando filosofia nella stessa facoltà dove mio nonno ha a lungo insegnato, ho conosciuto alcuni suoi ex-colleghi che mi hanno sempre trasmesso la profonda stima che avevano per lui come studioso e l'affetto e che mi ha sempre riempito di orgoglio; uno di loro disse più o meno che «chi non lo stima come studioso, è un cretino»; sono riuscito, anche se in breve tempo, a sviluppare una amicizia con questo professore, e spero in questo modo di dare una continuità a un rapporto affettivo e di studio.
Nonno ha concluso la sua vita come l'ha vissuta, cioè pensando e studiando. Il suo ultimo lavoro è stato la cura del suo sito in cui, nonostante la cecità ma grazie all'aiuto di giovani studiosi di antropologia, ha scannerizzato alcuni suoi testi e ha fatto una guida ragionata dei suoi lavori; l'epigrafe di questo sito è «non basta allo studiare solo una vita», una frase che è “tutto un programma” e che ne rappresenta tanto la vita e il lascito da essere secondo me il miglior epitaffio per nonno.
Nonno ti vorrò sempre bene e mi mancherai: terrò sempre a mente le cose che mi hai insegnato.
Intervento di Vincenzo Lombardi al funerale di Castropignano
Quando ho saputo della morte del prof. Cirese sono stato colto da un sentimento di profonda tristezza che (non sembri poco rispettoso) ha lasciato spazio ad uno spiraglio di serenità quando ho appreso della sua volontà di tornare in Molise, a Castropignano, nei luoghi della sua infanzia, dei suoi ricordi cari, vicino al padre Eugenio.
Immediatamente mi sono tornate alla mente le parole che aveva utilizzato in chiusura di un colloquio che con lui avevo avuto per la pubblicazione del volume dedicato alle registrazioni della Raccolta 23 da lui realizzata nel 1954, per il Centro nazionale studi di musica popolare, con Diego Carpitella.
Dopo aver rievocato quell’avventura, felice di rinverdire il ricordo, il professore disse: “… ora al mondo molisano degli affetti e degli studi sono tornato … come al crepuscolo accade quando un amore c’è stato e dura” (amc).
Era il 2005, e Cirese rievocava quella esperienza, ricordava la collaborazione con l’amico Diego, le avventurose trasferte con la vespa del cugino Luigi, il legame con i cugini Rosolina e Nicola Savino, ma rintracciava le radici profonde di quella esperienza e il ricordo andava ad Eugenio: padre e maestro, come gli ricordò Natalino Sapegno.
Il legame col Molise, anche quello degli studi, credo, si è snodato lungo il filo degli affetti, ed in quelli ha trovato carica ed energia.
Le ricerche e gli studi degli anni Cinquanta, come Cirese stesso ricorda, sono conseguenza diretta dei lavori di Eugenio, verso il quale Alberto – al ritorno da Parigi per la sua borsa di studio presso il Musée de l’homme, è addirittura risentito. Quando il padre sofferente, “dal letto, già piegato dal male, […] annunciò il proposito di dare vita a una rivista”, Alberto reagì; ricorda: “ne dubitai, ed anzi fui ostile”.
Poi invece, “La Lapa” nacque e fu un successo, ospitò i maggiori studiosi dell’epoca, fra i quali Claude Lévi-Strauss, per la prima volta in Italia. Nello stesso anno, 1953, era apparso il primo volume dei Canti popolari a cura di Eugenio, opera che fu il presupposto per le due raccolte di registrazioni del 1954, quella per Cnsmp, che coinvolse le comunità albanesi molisane, e quella per “La Lapa” che interesso le comunità croate del Molise. A queste esperienze sono legate altre importanti opere e lavori scientifici come i Saggi sulla cultura meridionale (1955) e gli scritti dedicati alla “pagliara”; da essi scaturiscono i contatti con gli studiosi d’oltre Adriatico Milko Maticetov e Milovan Gavazzi; da essi prende origine il saggio sul “Lamento funebre” presso i croati molisani ed il numero speciale de “La Lapa” dedicato al padre appena morto e al Molise che, nella dedica, quasi si identificano; da quelle esperienze di ricerca nasce il secondo volume dei Canti popolari, del 1957.
Piano scientifico e piano affettivo si intrecciano e si fondono; padre e patria, una di quelle che Cirese si riconosceva, tendono a sovrapporsi; spesso ricordava: … la molteplicità delle patrie, che mai però dimentica la prima e vera … C’era questo, tra l’altro, nella quotidiana nostra vita di casa: un insegnamento che appresi, e mi fu naturale cercare di applicarlo allora e poi.
Ma, per usare ancora le sue parole, “quando un amore c’è stato, dura”. E allora, nonostante l’insegnamento presso l’Università di Caglari, dal 1957, lo portò ad allontanarsi dagli studi molisani, il legame non si è mai affievolito. Gli scritti dedicati ad una delle sue patrie, il Molise, non sono mai mancati, fino a quando – come lui stesso ha detto – non vi è tornato, ancora una volta; verso i suoi affetti e i suoi studi.
Lo ha fatto operando direttamente, ma anche ispirando, invogliando e sostenendo lavori di altri studiosi “di più giovane generazione”; seguendoli con accortezza e vigile amorevolezza.
Nella scia di questo ulteriore ritorno trovano posto nel 1983, Intellettuali e mondo popolare nel Molise; nel 1991 la ristampa de “La Lapa” curata da Pietro Clemente; nel 1997 la sistematizzazione degli scritti di Eugenio con Oggi, Ieri, Domani che cura lui stesso; una nuova attenzione agli studi degli anni Cinquanta, fra il 2002 ed il 2005; nel 2007, la ristampa anastatica di Gente Buona, sussidiario per le scuole elementari del 1925, e la Mostra, allestita nello stesso anno 2007, dedicata ad Eugenio Cirese; nel 2009, Com’a fiore de miéntra, riflessione a più voci sul rapporto fra poesia e musica nell’opera poetica di Eugenio Cirese.
Alberto Mario Cirese, Maestro per più generazioni di studiosi, ha insegnato che le identità non si ereditano, ma si scelgono. La scelta di essere sepolto a Castropignano, il paese dei giochi e dei ricordi d’infanzia, testimonia il profondo legame di sentimenti che ha sempre mantenuto con il Molise, una delle sue cinque patrie d’adozione, ma soprattutto la terra fatata degli affetti e della “fatia” trasmessagli dal padre Eugenio. E questo è, a mio avviso, un prezioso, ultimo, gesto di amore verso la sua Patria.
Spesso, durante i colloqui telefonici, abbiamo avuto modo di dialogare sulle frequenti “distrazioni” che il Molise ha avuto e ha verso i suoi uomini migliori, e di ciò il professore si rammaricava. Come amava dire, l’unico modo per onorare uno studioso è studiarne l’opera. L’impegno del Molise, spero, voglia andare in tale direzione.
Intervento di Gino Cirese al funerale di Castropignano
Caro Alberto
sono l'ultimo della nostra generazione dei Cirese (dopo di noi ci saranno Nicola ed Eugenio con i loro figli) e sono anche l'unico che ha avuto la fortuna di mantenere aperta la casa Cirese di Castropignano; tocca perciò a me salutarti e ringraziarti per il tuo ritorno a Castropignano e credo che il modo migliore per farlo sia quello di leggerti una mia breve lettera che molto tempo fa avevo scritto a te e ad Enzo, lettera che è però rimasta nel mio computer perché non ho mai avuto la forza di inviartela
LETTERA AI CUGINI ALBERTO ED ENZO
Cari Alberto ed Enzo
In una lettera scritta a papà dell'anno 1947 zio Eugenio, parlando della casa in cui, a seguito della morte del nonno Luigi, i Cirese avevano trasferito la loro dimora a Castropignano, così si esprimeva:
"...mio desiderio è che la casa di Castropignano sia, per Alberto ed Enzo, per Gino e Rosolina, il simbolo benedetto dell'unità della nostra famiglia"
Il desiderio di zio non si è potuto realizzare appieno perché ognuno di noi, per scelta o per esigenze personali, si è visto costretto a vivere in un posto diverso, ma credo che quella "unità della famiglia" tanto ardentemente auspicata da zio possa ancora diventare realtà in futuro, quando tutti noi dovremo, purtroppo, lasciare questa vita. So bene che sarebbe meglio evitare certi discorsi, ma, poiché non credo all'immortalità, preferisco affrontare apertamente l'argomento. Nella cappella gentilizia che è in via di ultimazione nel cimitero di Castropignano ho fatto ubicare, in posizione centrale, una tomba che conterrà i resti di zio Eugenio. Nella stessa cappella ci sono già quelli di papà e mamma, di nonna Rosina e di zia Emilia e ci sarò anche io, quando sarà venuto il momento. Non mi dispiacerebbe perciò che, insieme a tutti noi ci fossero anche Alberto ed Enzo perché così mi sembrerebbe di aver esaudito, anche se in modo postumo, un desiderio che certamente non era solo di zio Eugenio, ma anche di mio padre.
Vi abbraccio affettuosamente
Gino
Intervento di Ambra Somaschini al funerale di Castropignano
William Butler Yeats, La rosa del mondo
Chi sognò che la bellezza trascorre come un sogno?
per queste labbra rosse, con tutto il loro orgoglio dolente,
dolente che nessun nuovo prodigio può accadere,
Troia passò in un supremo funebre splendore,
e i figli d'Usna perirono
noi e il mondo in travaglio passiamo:
tra le anime umane che arrivano a onde e si ritraggono
come pallide acque nella loro corsa invernale ,
sotto le stelle in transito, spuma del cielo,
continua a vivere questo volto incomparabile
Inchinatevi arcangeli, nella vostra indistinta dimora:
prima che voi foste, o un solo cuore palpitasse,
stanca e gentile una indugiava accanto al Suo trono;
Egli formò il mondo perché fosse una via erbosa
davanti ai suoi piedi errabondi.
William Butler Yeats, Vorrebbe avere le stoffe del cielo
Se avessi le stoffe
ricamate dei cieli
lavorate con luce d'oro e d'argento,
le stoffe azzurre e le opache e le oscure
della penombra, della luce e del buio,
le stenderei sotto i tuoi piedi:
ma sono povero e non ho che i miei sogni;
ho steso i sogni sotto i tuoi piedi;
cammina piano perché calpesti i miei sogni.
Sebastiano Martelli - Ricordo di Alberto Mario Cirese al funerale di Castropignano
(
Intervento rivisto e ampliato a cura dell'autore)
Di qualche generazione più giovane di Alberto Mario Cirese, avrei voluto essere suo allievo all'università, almeno da studente, come è capitato a tanti più fortunati che nelle università di Cagliari, Siena, Roma o all'estero hanno avuto la possibilità di vivere un'esperienza che in molti di loro ha lasciato il segno. Glielo avevo anche detto in uno dei nostri incontri e mi aveva guardato con quegli occhi acuti, con quello sguardo che concentrava attenzione, curiosità, penetrazione, ed insieme severità e ironia. E quel suo sguardo verso gli altri e verso la realtà non va dimenticato per capire non soltanto la sua personalità ma anche il suo denso percorso di studioso: lo sguardo in un antropologo è la chiave di volta per accostarsi alla realtà da indagare, per piegarsi all'umanità, nel suo caso a quella del mondo contadino e dei ceti subalterni del secondo dopoguerra.
Cirese lo fece sempre sul filo di quella categoria leviana dell'osservazione partecipata, nella quale metodo scientifico e partecipazione umana ed intellettuale trovano una peculiare fusione; è questo il filo rosso che attraversa tutto il suo lavoro e la sua imponente produzione testimoniata da decine di libri e centinaia di saggi: metodo scientifico ed insieme sensibilità, attenzione, disponibilità umana ed intellettuale, fino all'impegno civile e politico come segmento della propria vita da mettere nel conto per essere coerente fino in fondo con se stesso.
Nei giorni successivi alla sua recente scomparsa (agosto 2011) sulla stampa, sui siti internet sono state ricordate le tappe del suo prestigioso curriculum accademico e del suo infaticabile impegno scientifico fino agli ultimi giorni, fino alle ultime energie, come hanno ricordato i familiari, e come molti abbiamo potuto constatare attraverso i suoi messaggi e-mail che con piacere, interesse ed affetto abbiamo potuto spesso leggere sui nostri computer; messaggi che in particolari ricorrenze avevano in allegato frammenti poetici, anche inediti, del padre Eugenio.
Sono molte le lezioni che ci vengono da Cirese: il ruolo che ha avuto nelle più significative innovazioni degli studi demo-etno-antropoligici del secondo dopoguerra, dall'affermazione del pensiero gramsciano all'apertura ai contributi provenienti d'Oltralpe, da Propp a Levi Strauss, dallo strutturalismo alla semiologia, fino all'applicazione alle tradizioni popolari dei modelli formali e logico-informatici (Intellettuali, folklore e istinto di classe, 1976; Oggetti, segni, musei, 1977; Segnicità, fabrilità, procreazione, 1984; Ragioni metriche. Versificazione e tradizioni orali, 1988; Dislivelli di cultura e altri discorsi inattuali, 1997; Beni volatili. Stili. Musei, 2007). Una peculiare attenzione alla modernità, ai nuovi orizzonti culturali e anche agli strumenti tecnologici per indagare la cultura popolare, per poterne traghettare le sue testimonianze, i suoi sensi, significati e valori nel tempo delle grandi mutazioni della seconda metà del Ventesimo secolo.
Cirese conosceva molto bene i rischi degli attardamenti, del campanilismo, della retorica umanistica nei confronti del mondo popolare ed altrettanto guardava con distacco le fughe in avanti ideologiche e la rincorsa verso una modernità effimera.
In una delle sue opere più importanti, Cultura egemonica e culture subalterne – un libro cui teneva molto perché legato alla sua piena maturazione di studioso e alla lunga stagione (circa un quindicennio) di insegnamento nell'Università di Cagliari, un libro frutto del suo impegno didattico, e quindi con una struttura volta ad interloquire con i suoi studenti – Cirese nella Premessa alla seconda edizione del 1973, proprio riferendosi agli studenti, sostiene che alle mode, alle novità, alle infatuazioni non si può rispondere con «queruli e pretestuosi lamenti», ma piuttosto con il confronto critico che non può prescindere dallo studio e dall'approfondimento storico-scientifico e contestualmente deve collocare oggetti e modi dello studio «nel quadro reale dei problemi del nostro tempo e delle tensioni che lo attraversano», stabilendo «seri ed attivi legami con le questioni storiche e scientifiche effettivamente emergenti», con «le trasformazioni che caratterizzano tanto la realtà dei fenomeni studiati quanto gli atteggiamenti teorici con cui a quei fenomeni ormai si guarda».
In anni in cui imperavano fondamentalismi politico-ideologici ed ermeneutici sull'onda degli entusiasmi per lo strutturalismo e la semiologia, Cirese non ha timore di indicare, anche sferzando, una direzione scientifica di altra caratura: «Infatuazioni e mode [...] non mancano. Il dilettantismo e la faciloneria di sempre possono trovare e trovano nuove incarnazioni in sembianze strutturali, semiologiche e persino pseudomarxiste: vesti e nomi nuovi per mestieri o giochi assai vecchi»; ma il rifiuto di queste «mistificazioni di oggi», aggiunge subito, non può essere operato «in nome di quelle di ieri». Passato e presente, tradizione e innovazione devono trovare una composizione seguendo «la strada del confronto e del legame con la situazione contemporanea e con le sue tensioni ideali e pratiche», solo così si può contrastare «l'ondata di certi pretesi ammodernamenti e stroncarne alla radice la dilettantesca superficialità, la caotica confusione interna e la disperata mancanza di seri impegni scientifici e umani».
Uno scritto in cui come in tanti altri si rivela lo studioso aperto alle novità scientifiche, teoriche e metodologiche, e all'incalzare dei cambiamenti nello scenario mondiale, pur senza infatuazioni; si palesa il ruolo del professore che sa interloquire con gli studenti mettendo in gioco la sua credibilità sul piano scientifico e anche il coraggio delle sue passioni, della sua indipendenza ed autonomia fino a forme di antiaccademismo non occasionale ma sincera pratica di vita accademica e intellettuale.
È inevitabile accennare come questo stile di studioso, di professore e maestro, di intellettuale si sia rapportato al Molise, alla sua molisanità; ci obbliga a farlo anche la sua scelta di essere sepolto nella terra paterna, una scelta che certamente ha profonde motivazioni affettive ma ha anche un valore che va oltre e che possiamo e dobbiamo raccogliere.
A testimoniare il suo legame con il Molise ci sono ovviamente i documenti, i suoi studi, i suoi libri: da La Lapa agli Studi di tradizioni popolari nel Molise (1955), un libro riproposto nel 1983 con l'aggiunta di nuove pagine su sollecitazione di Luigi Biscardi e di Cosmo Marinelli; e lo stesso Marinelli avrà un ruolo non secondario di affettuosa amichevole sollecitazione a completare quello che è e resterà un monumento della cultura molisana, l'edizione di tutta la produzione poetica del padre Eugenio (Oggi domani ieri, 1997), che è anche un monumento perenne che il figlio ha realizzato al padre. Certo, è indiscutibile che la molisanità di Alberto Cirese ha radici profonde nella figura paterna, come testimonia anche l'ultima stagione della sua vita, quella seguita alla edizione del corpus poetico del padre, ma credo sia utile cercare di capire che cosa ha significato per Cirese la molisanità. Penso che il documento più significativo per questo obiettivo sia la conferenza che tenne a Campobasso a conclusione di un convegno sull'emigrazione che io, Rimanelli e altri amici organizzammo alla fine degli anni Ottanta; alla presenza di studiosi italiani e nordamericani e di un folto pubblico Cirese lesse le sue riflessioni cui aveva dato il titolo Il Molise e la sua identità. Conservo gelosamente quelle pagine dattiloscritte con sue annotazioni manoscritte; sono pagine in cui Cirese chiarisce a se stesso e ai molisani che cosa intende per identità molisana e quale fosse il suo rapporto con essa, e come considerava la sua identità, che egli definisce plurale: Molise, Abruzzo, Sabina, Sardegna, Messico, tutte tappe importanti e decisive della sua vita professionale ed umana con passaggi che anticipano di un ventennio alcuni studi e dibattiti odierni sull'identità nei nuovi scenari del mondo globale, delle migrazioni e del multiculturalismo.
Cirese chiarisce subito che per lui il Molise è "patria di elezione", che fa i conti con altre patrie e con altre cittadinanze, ognuna con una «peculiarità inconfondibile e irripetibile», e in ognuna di esse, egli dice, nel corso della vita «ritrovavo il filo che va da Canzone d'atre tiempe a Lucabelle e La Lapa e ritrovavo anche il fitto tessuto della scuola, quella elementare anzitutto, che dette la trama di persone e di idee su cui s'articolò tanta parte degli orditi paterni». Dunque un'identità plurale in cui quella molisana è parte importante; ma che cosa entra in questo segmento provinciale della identità e della formazione di Alberto Cirese, che cosa vi confluì fin dagli anni dei suoi studi sulla cultura molisana del secondo dopoguerra?
Oggi, in Molise, mi trovo ad affrontare quello stesso problema di cui appunto studiando il Molise mi avvidi più o meno confusamente trent'anni fa. La tensione allora era, o mi parve, tra cosmopolitismo e campanilismo: tra la dissoluzione di ogni fisionomia locale come unico modo per partecipare alle più vaste ragioni del mondo, e la chiusura rigida nel proprio mondo locale come unico modo per salvare il bene prezioso e irrinunciabile della propria identità.
Due insegnamenti credetti allora di ricavare dalla storia culturale del Molise, studiata in un settore significativo per ciò che riguarda 1'immagine che i Molisani hanno dato a sé stessi del proprio Molise. È il settore dell'attenzione prestata dagli intellettuali locali al mondo popolare tradizionale, in quel processo di circolazione tra vertici e base, tra studiosi e contadiname, o tra galantuomini e cafoni o massari in che quasi ovunque sta il fondamento delle immagini che si recepiscono o si creano o si interiorizzano.
Disegnando un rapido profilo della cultura molisana, Cirese richiama i suoi momenti alti del Sette-Ottocento quando i suoi protagonisti assurgono a prestigio nazionale, e di essi Cirese sottolinea soprattutto un dato peculiare, una sorta di imprinting:
mi parve anzitutto che fosse tratto significativo e caratterizzante della fisionomia culturale molisana la sua partecipazione diretta ai momenti diciamo così più austeri della cultura nazionale ed europea: sì all'Illuminismo ed alle sue immediate propaggini post-illuministiche, con Galanti o Longano o Pepe, Cuoco e no (o mi pare) al romanticismo; sì alla severità filologica dell'età positivistica, con Melillo e Pittarelli che sono della stessa stoffa di un Francesco D'Ovidio o di un Nicola Scarano, e soprattutto con quello straordinario ingegno che fu Luigi D' Amato che, poi medico insigne, diciottenne scriveva sulle stesse riviste su cui scriveva il poco più giovane Croce; e attorno al 1890 espresse riflessioni che forse Croce lesse, e che comunque disse in proprio, quasi con le stesse parole, più di vent'anni dopo. Sì dunque a seria filologia e storia, e no invece, che so, al decadentismo: giacché proprio non credo che in quel quadro possa collocarsi neppure Lina Pietravalle.
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E proprio in questi momenti alti della storia culturale del Molise, Cirese coglie quello che gli sembra, a giusta ragione, il tratto più significativo:
la capacità [...] di partecipare in modo attivo al processo di circolazione culturale della nazione e oltre: non solo la capacità di accogliere (ma selettivamente e fuori delle mode) i moti che nel "ritondo vaso" della cultura vanno dal centro al cerchio, ma anche la capacità di corrispondere con moti inversi, quelli che vanno dal cerchio al centro e vi recano il contributo di avanzamento che nasce da una illuminata esperienza della vita locale.
A questo punto della pagina dattiloscritta della conferenza tenuta a Campobasso Cirese aveva aggiunto a penna: «e da una profonda onestà intellettuale»; una più che significativa integrazione a margine, probabilmente scritta poco prima della lettura che io ascoltai in quell'occasione; una integrazione che chiudeva il cerchio entro il quale egli collocava i riferimenti più significativi della storia culturale del Molise ed il suo riconoscersi in essi privilegiandoli.
Cirese, da profondo conoscitore del mondo popolare molisano indagato soprattutto negli anni giovanili – da La Lapa. Argomenti di storia e letteratura popolare (1953-1955) ai Saggi sulla cultura meridionale (1955), I canti popolari del Molise (1957) – non tralascia di aggiungere che l'«austerità» non significa «mutria» poiché «ridere e cantare e abbandono intenso alle ragioni del cuore stanno anch'essi nella storia culturale molisana [...], sempre però in limpidi confini di contenutezza, anche là dove più struggente o drammatico si fa il sentimento». E questo status non può essere disgiunto da «una pensosità come di antica saggezza».
Ma questa dichiarazione del suo legame con la patria molisana è sempre filtrata attraverso una controllata lucida mediazione tra ragioni storico-culturali e ragioni biografiche e sentimentali, come testimonia il richiamo a due protagonisti della cultura molisana degli inizi del Novecento, Igino Petrone e Enrico Presutti: il primo, filosofo cattolico, dell'identità molisana sottolineava «una profonda sobrietà interiore» – indole «semplice, laboriosa, misurata [...] native virtù di probità [...] anima territoriale, agricola, montanara, essa è profonda ed opaca come la terra» – ma anche «un impeto inibito da una caduta secolare» che Cirese traduce in «una scarsa disponibilità all'innovazione ed alla iniziativa»; del secondo – storico. sociologo, politico nittiano – Cirese ricorda la sua analisi della classe dei galantuomini messa in crisi dall'emigrazione contadina di massa tra Ottocento e Novecento, segnata dall'«apatia» e dalla «rassegnazione», mentre il mondo contadino con «capacità di iniziativa e coraggio» prendeva le vie dell'oceano.
A questo punto, a margine del testo dattiloscritto Cirese aveva annotato, riferendosi agli studiosi presenti al Convegno di Campobasso: «e certo ci diranno anche quanto l'emigrazione abbia contato e in che senso, positivo e negativo, nell'immagine di sé che il Molise ha dato a sé stesso: di dolore? di orgoglio?».
Ritornando al testo dattiloscritto Cirese concludeva la pagina con questo interrogativo: «se la tenuità dell'innovazione fosse il prezzo necessario da pagare per conservare la sobrietà interiore, che scegliereste? che sceglieremmo?». Premesso che per lui il Molise è «una patria interiore», costruita dalla «storia» ma che può transitare verso il «mito», Cirese non si sottrae dal veicolare nell'identità molisana alcuni tratti per i quali utilizza come fonte scrittori imprescindibili, come Francesco Jovine, Lina Pietravalle, Eugenio Cirese che nei molisani rilevavano «lo scarno parlare» – «Il contadino molisano è ordinariamente taciturno; non dice che l'indispensabile; abitante di una terra difficile, aspra, scoscesa, rotta, a pendii rocciosi, a sassaie aride, ha nelle vene l'asprezza della lotta per vivere» (Jovine) – e nei loro canti la «compostezza»: «le stesse canzoni che a lasse brevi e malinconiche e tremule vagano talvolta per l'aria sono ingenuamente narrative e grossolanamente sarcastiche» (Jovine); «Non cantano spesso, non cantano troppo le genti dell'antico e più ignoto Sannio. Non inventano, non producono altri atteggiamenti musicali, non spigolano in altri campi. Sono sempre le immutevoli loro vecchie arie di contraddanze, le loro immutevoli melopee, i loro stornelli melodici e afflitti come fioretti di chiesa, in un linguaggio di poesia pieno di misteriosi retaggi di epoche spente, di immemorabili modi di generazioni trasmigrate, rimasti a significare, come le pietre miliari di una via corrosa dal tempo, qualche cosa dell'antica vita, dell'antico viaggio» (Pietravalle).
È questo «caldo e sereno raccoglimento canoro», sottolineato da Cirese con le parole del filosofo torinese Augusto Guzzo, che può essere recuperato come «stile», segmento dell'identità molisana del «canone della patria ideale interiore», in cui confluiscono lo «scarno parlare» fino al silenzio rilevato da Jovine, ripreso e rimodellato da Eugenio Cirese: «il naturale atteggiamento di grazia assorta e pensosa che assumono nel paesaggio gli uomini e le cose [...] quella espressione di consapevole fierezza che dà composta nobiltà alla fatica dei nostri uomini e delle nostre donne [...] [quel] senso della misura austero e profondo che traspare in ogni atteggiamento e in ogni forma di vita del Molise».
La conferenza tenuta a Campobasso credo sia stata l'occasione per Cirese, nel tempo in cui inizia il crepuscolo della propria vita, di un bilancio, un fare i conti con quella che egli chiama la «patria interiore», consapevole anche del rischio di uno slittamento dalla «storia» al «mito»; un attraversamento in cui però egli riesce a conservare sempre una grande lucidità e severità, come dimostrano gli interrogativi che pone a conclusione dei prelievi culturali e sentimentali sulla patria molisana sopra ricordati: «È stato davvero così? È ancora così? Vogliamo che continui ad esserlo? Che prezzi siamo disposti a pagare perché questo canone della patria interiore, se tale è tale vogliamo che resti, mantenga la sua forza?». Cui Cirese fa seguire assai significativamente un pensiero del padre Eugenio: «Forse non c'è di meglio che una prolungata assenza dalla propria regione per vederne con chiarezza la forza e i limiti»; inevitabile viaggio per chi voglia continuare a far «valere» il canone ideale della patria provinciale, da parte di chi ci vive ma anche di chi vive altrove, come egli stesso, che ha il dovere di dire quanto contino e quanto siano preziosi certi valori.
Attraverso il suo rapporto con il Molise, Cirese elabora un'idea alta di essere e sentirsi "provinciale", «il modo più aperto e curioso di esperire il mondo dei provinciali» – come ha scritto il suo allievo Pietro Clemente – una dimensione «strategica per capire» il mondo e la storia: «Questi a me parvero tratti caratterizzanti della vicenda culturale che allora studiai. L'immagine che me ne derivava (o, se volete, la patria culturale che mi venivo configurando) scavalcava dunque cosmopolitismo e campanilismo; era piuttosto 1'idea, o l'ideale, di una operosità che avesse il cuore nel luogo e il cervello nel mondo: o anche, e 1'immagine è speculare, il cervello nel luogo e il cuore nel mondo».
Da antropologo Cirese sa bene che nell'identità entrano componenti soggettive, storia e geografia del proprio vissuto, scelte esistenziali, realtà e immaginario: «1'identità non è un fascio di dati oggettivi; è piuttosto una scelta che soggettivamente si compie. È il riconoscersi in ... un qualche cosa che talora è solo una parte di ciò che effettivamente si è. L'identità è il trasformare un dato in un valore. L'identità non è ciò che si è, 1'identità è 1'immagine di sé che ciascuno dà a se stesso. Non so dunque se quei tratti siano 1'identità del Molise; so che sento il Molise come patria perché credo che abbia quei tratti». Se l'identità è alla confluenza di molteplici consapevoli percorsi di vissuto e di conoscenza, di sistemi stabili ed insieme aperti ad orizzonti senza confini, allora essa, con il suo tratto genetico provinciale, diviene un valore aggiunto da traghettare anche nella modernità più avanzata: «umanità intensa nel sentire e sobria nell'esprimersi. È forse questo il motivo centrale che accomuna tutte le proposte di identità molisana che sono venuto citando. Ed è lì che si trova, io credo, la chiave per capire come si possa avere pluralità di patrie senza tradimento, e come il rivendicare il diritto alle fisionomie locali non porti di per sé alla chiusura localistica».
Quando Cirese leggeva il testo della sua conferenza a Campobasso non era ancora dispiegato il tempo della globalizzazione e delle nuove migrazioni che avrebbe segnato le società dell'Europa, compresa l'Italia, delle teorizzazioni dello scontro di civiltà e della progettualità delle identità plurali, eppure le sue parole sembrano chiosare proprio quanto sarebbe avvenuto nei due decenni successivi:
Fu condizione necessaria del crescere umano che l'unità biologica della specie si frammentasse in mille etnie diversificate fino al limite dell'apparente incomunicabilità. La torre di Babele non fu il caos, ma la nascita dell'operare umano. E non si spezzò l'intendersi: ai livelli più elementari, quello della quotidianità del vivere, ed ai livelli più alti, quelli, che so, dell'arte e della filosofia, il mutuo intendersi non è mai venuto meno. La comunicazione s'è interrotta ai livelli intermedi, ed è il feroce erigersi in fortilizi delle case pur chiuse da uno stesso muro e da una stessa fossa, e cioè dai confini dell'umano. Oggi la simultaneità planetaria della comunicazione dissolve gran parte della frammentazione etnica su cui l'umanità s'è fin qui costruita. Contrasteremo il processo? O non piuttosto cercheremo di agire perché sia soltanto il potenziamento di quei canali d'intendimento che mai si sono interrotti, l'elementarmente umano e l'alto pensare? Per quelle vie sento mie più patrie, e per quelle vie intendo le patrie altrui.
Cirese concludeva la sua conferenza a Campobasso chiamando in causa il rapporto generazionale in riferimento alla patria paterna che i padri non possono imporre ma hanno il diritto/dovere di far conoscere ai propri figli, gli unici cui spetta la scelta: «i padri non hanno il diritto di esigere che i figli accettino la patria paterna e vi restino chiusi. Hanno diritto però di operare perché l'eventuale rifiuto dei figli avvenga al livello di libertà più alto: che sia cioè un atto di scelta, e non soltanto un abbandono, una desuetudine, un oblio. Esibire il modello, cioè, non per imporlo, ma solo perché lo si conosca».
Una chiusa esemplare, coerente con il pensiero e la vita del nostro maestro: forse mai nessuno è riuscito ad esprimere meglio l'ideale passaggio generazionale del testimone della patria provinciale*.
* Il testo della conferenza, Il Molise e la sua identità, tenuta a Campobasso a conclusione del Convegno "Il Sud e l'America: Molise ed emigrazione" (26-29 giugno 1987), fu pubblicato sulla rivista «Basilicata», n. 5-6, 1987, pp. 12-15; ora in Tra cosmo e campanile. Ragioni etniche e identità locali, a cura di P. Clemente, G. Molteni, E. Testa, Siena, Protagon, 2003, pp. 121-134. Il testo pubblicato non recepisce qualche breve annotazione manoscritta dell'autore presente nella copia del dattiloscritto di cui Cirese mi fece omaggio e che io, col suo consenso, passai a «Basilicata» per la pubblicazione.
Sebastiano Martelli
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